“Figli delle app”, nativi digitali.

Figli delle app, il bel libro di Francesco Pira, ci aiuta a comprendere la vita social ed al tempo stesso la solitudine dei cosiddetti nativi digitali, facendo luce sulle trasformazioni che la rivoluzione tecnologica sta apportando nei modelli comunicativi e comportamentali dell’odierna generazione di preadolescenti e adolescenti.

“Figli delle app”, nativi digitali.

Giovanni Marangio

Invito alla lettura

Photo by Daria Nepriakhina on Unsplash

Figli delle app[1], il bel libro pubblicato recentemente da Francesco Pira, sociologo e professore all’università di Catania, ci aiuta a comprendere la vita social ed al tempo stesso la solitudine dei cosiddetti nativi digitali, facendo luce sulle trasformazioni che la rivoluzione tecnologica sta apportando nei modelli comunicativi e comportamentali dell’odierna generazione di preadolescenti e adolescenti. Il perché del titolo lo spiega l’autore stesso nelle prime pagine del volume: “Figli delle app è il provocatorio titolo che ho scelto, da immigrato digitale e adolescente, quando Alan Sorrenti cantava: Noi siamo figli delle stelle/ Non ci fermeremo mai per niente al mondo/ Per sempre figli delle stelle/ Senza storia senza età, eroi di un sogno. Non sono sicuro che essere figli delle app sia “essere eroi di un sogno”, purtroppo concordo con il pensiero del grande sociologo Zygmunt Bauman che il consumismo tecnologico rischia di trasformarci in individui senza storia e identità” (pag. 19).

Tracciando l’evoluzione degli strumenti del comunicare a partire dall’avvento della televisione, Francesco Pira descrive il processo di mediatizzazione che ha caratterizzato la nostra società e come questo influenzi la nostra vita sociale. Rifacendosi anche a McLuhan, l’autore evidenzia la preminenza attribuita nella nostra cultura all’immagine come fonte di sapere, con una conseguente atrofizzazione delle capacità di astrazione e comprensione a vantaggio di una conoscenza di tipo più reattivo ed emozionale. È un processo di trasformazione dell’homo sapiens in homo videns, che si rafforza nel tempo grazie ai progressi della tecnologia: “Gran parte della storia contemporanea ruota intorno alla video-rappresentazione; quella “scatola” presente nelle case di ogni abitante della terra ha guidato la nostra conoscenza del mondo e degli altri, si è trasformata, si è moltiplicata, è diventata multipiattaforma, si è ricombinata ed è entrata in tutti gli altri strumenti tecnologici. Sì, perché il video, la visione, l’immagine è diventata il centro delle nostre esistenze” (pag. 87).

Si tratta di cambiamenti che investono non solo le nostre modalità di conoscenza del mondo, ma anche e profondamente la nostra vita sociale. Grazie agli sviluppi della tecnologia degli ultimi decenni, per molti il gioco si trasforma in videogioco, la comparsa dei telefonini facilita la sostituzione della comunicazione in presenza con quella a distanza e favorisce le prime tendenze all’isolamento sociale. La trasformazione dei telefoni cellulari in smart phone, la diffusione di app come Facebook, generano profondi cambiamenti nel modo in cui si svolge la vita sociale: tutti sono connessi, i “social media” si diffondono e ci offrono degli universi sociali, fatti di connessioni più che di relazioni, in cui rappresentare noi stessi secondo modalità strutturate, una sorta di vetrina in cui proiettare la nostra persona sociale. Le app, a portata di mano e in un’ottica “soluzionista”, offrono strumenti per risolvere un insieme apparentemente infinito di problemi e situazioni (di lavoro, di studio, di carattere sentimentale, ecc.). Tra queste, ci fa notare l’autore, WhatsApp, con la sua messaggistica istantanea, rappresenta una rivoluzione nel modo di comunicare, offrendo la possibilità di usare indifferentemente messaggi testuali, verbali, immagini e video. Un aspetto di questa rivoluzione è l’importanza che ha assunto la comunicazione “pittografica”, fatta di faccette che sorridono e di un intero repertorio di icone, in una sorta di riavvicinamento collettivo ai tempi in cui l’umanità non aveva ancora sviluppato i sistemi di scrittura. Il rischio è quello di una inconsapevole semplificazione dei processi comunicativi effettuata attraverso l’uso di una “pittografia guidata”, cioè di pittogrammi che non creiamo liberamente per esprimere i nostri sentimenti, come facevano i nostri antenati, ma che riceviamo già confezionati dagli autori che operano per le aziende che sviluppano e gestiscono le diverse app.

È in questo ambiente profondamente digitalizzato che i giovani crescono ed è quindi importante comprendere come tale ambiente influenzi lo sviluppo delle loro personalità e la costruzione della loro identità.

In questa prospettiva alcuni fenomeni destano preoccupazione. “La contrapposizione tra semplicità d’uso delle tecnologie e complessità del mondo sta generando una società individualista, poco incline al confronto, dove, per riprendere la tesi di Bauman, gli individui credono di essere connessi con il mondo ma vivono in una confortevole solitudine” (pag. 65). Il fenomeno del confirmation bias, ovvero la conferma ed il rafforzamento delle proprie credenze ed opinioni determinato dal modo in cui app e motori di ricerca filtrano le informazioni che riceviamo attraverso internet, contribuisce ad approfondire l’isolamento culturale, se non addirittura sociale, degli individui. I ragazzi, esposti a questo tipo di influenza sin da molto piccoli, finiscono spesso con il considerare il mondo mediato dalle app più reale della realtà stessa. I gruppi virtuali si aggregano in genere sulla base di ciò che piace ai “like-minded people”, selezionati attraverso la sequenza like-share-comment. Ciò aumenta l’esposizione selettiva agli stessi contenuti e quindi la polarizzazione dei gruppi e la chiusura verso opinioni ed orizzonti differenti. Si viene insomma a determinare una struttura relazionale del consenso ed una alterazione dei meccanismi che governano ciò che retiniamo plausibile o implausibile.

D’altra parte, un fenomeno importante indotto dalla centralità dell’immagine e dal diffondersi dei nuovi codici comunicativi nella nostra cultura è la prevalenza dell’immediatezza, dell’apprendimento e dell’informazione basati su di una rappresentazione mediatica emotiva e semplificata della realtà. Ciò induce a velocizzare molti processi decisionali: si tende ad agire o a giudicare prima di conoscere, sulla base della percezione piuttosto che della comprensione razionale.

È un fenomeno che riguarda più o meno tutti, ma i nativi digitali vi sono più esposti. Un ruolo importante è giocato dagli influencer non solo nel plasmare le opinioni di molti di loro, ma anche nel determinarne i comportamenti di acquisto di beni e servizi, in ciò fungendo da strumenti di strategie di marketing industriale nell’ambito della nostra società consumistica.

Ritornando ai processi di formazione e di crescita dei nativi digitali, i social media da loro frequentati (per esempio Instagram) creano un universo sociale in cui l’identità rappresentata tende ad essere separata da quella privata, in un processo di vetrinizzazione del proprio sé volto ad ottenere successo e commenti positivi, spesso in imitazione di modelli competitivi ed iper-performanti. L’identità rappresentata è scientemente studiata per proiettare un’immagine attraente, “popolare”, in un’ottica di reattività emotiva ed istantanea che necessita di essere continuamente alimentata con nuovi post per resistere nel tempo, tanto più se si considera che le “stories” pubblicate sul social di solito rimangono visibili per un tempo limitato, in un contesto di progettata provvisorietà.

La pressione sociale dei coetanei, il bisogno di farsi notare e di piacere da una parte, dall’altra il predominio dell’io, una certa anarchia comunicativa, la sensazione che tutto sia permesso, conducono sovente a comportamenti dannosi per sé (è quanto è successo ad alcuni ragazzi che hanno partecipato a pericolosi giochi di “challenge” promossi in rete) o per gli altri.  In quest’ultimo caso si parla di comportamenti manipolatori o di nuove devianze come il cyberbullismo, il body shaming, lo slut shaming (“svergognare la sgualdrina”), il revenge porn, che tendono ad essere accettati attraverso meccanismi di moral disengagement (“disimpegno morale”). È interessante notare che a questo proposito Francesco Pira fa riferimento esplicito ai concetti introdotti da Albert Bandura[2] ed altri nel 1996. Si tratta, in estrema sintesi, di meccanismi di pensiero attraverso cui coloro che perpetrano azioni riprovevoli cercano di sminuirne la responsabilità morale. Esempi ne sono le definizioni eufemistiche di quanto è stato commesso, o i tentativi di diffondere la responsabilità sul maggior numero possibile di persone (se qualcosa è fatto da tutti nessuno è responsabile, oppure se qualcosa è stato commesso in gruppo, sono gli altri i maggiormente responsabili). Un altro procedimento di autogiustificazione consiste nell’attribuzione della responsabilità alla vittima stessa (per esempio perché “ha provocato”). Si noti che questi meccanismi sono gli stessi che tradizionalmente sono stati adottati per mascherare le responsabilità di chi ha commesso stupri o altri crimini anche su vasta scala.

Di fronte ai problemi posti da questa situazione, l’autore di Figli delle app non assume una posizione di chiusura verso le nuove tecnologie. Il suo libro, del resto, non è dedicato solo alle vittime delle nuove devianze, ma anche “a coloro che usano le nuove tecnologie per trasmettere al mondo messaggi positivi e condividere conoscenza”. In questa prospettiva è necessario creare nuovi modelli di governance del mondo digitale finalizzati alla riduzione delle disuguaglianze nell’accesso alle risorse digitali stesse, incrementare la “digital literacy”, l’alfabetizzazione ma anche la competenza critica in ambito digitale, per garantire soprattutto ai giovani una migliore trasparenza dei flussi di informazioni, promuovendo anche attraverso le istituzioni educative lo sviluppo di una cultura partecipativa, in grado di attivare la capacità di confrontarsi, di mettere in comune le conoscenze, capacità indispensabile per orientarsi tra tutto ciò che circola in rete, ivi comprese le fake news. È importante inoltre consentire ai ragazzi di sviluppare valori e norme etiche per muoversi con responsabilità nel mondo sociale tecnologizzato[3].

Il volume di Pira è anche l’occasione colta dall’autore per presentare i risultati di un’inchiesta svolta nel mese di aprile 2020 su di un campione di ragazzi e ragazze attraverso la compilazione online di un questionario.  Si tratta di risultati molti interessanti che gettano luce sul rapporto degli adolescenti con la tecnologia digitale, la didattica a distanza, i social durante il periodo della pandemia di COVID-19.

Tra i molti dati esposti, mi limiterò a citarne un paio.

Durante il periodo di didattica a distanza e di lock down la maggioranza dei ragazzi che hanno risposto al questionario dichiara di aver provato sensazioni di forte isolamento, paura e scoraggiamento, un segnale questo che la connessione (che in questo periodo, come rileva la stessa inchiesta, è giunta ad occupare tempi ancora più lunghi durante la giornata) non sostituisce i benefici della relazione vissuta in libertà, termine che i giovani utilizzano in relazione alla possibilità di uscire di casa ed incontrare gli amici. Il disagio risulta inoltre aumentato dalla promiscuità forzata che lo smart working ha determinato presso molte famiglie, specialmente tra coloro le cui abitazioni non dispongono di spazi sufficientemente ampi.

Se è ormai pacifico che il 99% dei ragazzi abbia un profilo social, è interessante che dalle risposte al questionario emerge che una quota non trascurabile tra loro utilizza un profilo falso.  Pur tenendo in considerazione il fatto che per gli adolescenti l’attività in rete fa parte di un processo di apprendimento e di partecipazione sperimentale alla vita pubblica, è questo un dato su cui riflettere. “Alla luce di quanto sopra esposto, si può affermare che gli adolescenti sono un “prodotto” di quest’era della disinformazione: vittime del sistema delle fake news, ne diventano protagonisti ritenendo “normale” utilizzare il falso per i propri scopi” (pag. 82). Ritorna qui il tema della costruzione di una cultura partecipativa più trasparente e più permeabile ai valori etici che faciliterebbe un’utilizzazione più consapevole e critica delle risorse digitali.

Come accennato sopra, si tratta di un percorso in cui le diverse agenzie educative, in particolare la famiglia e la scuola, possono svolgere un ruolo determinante. Significativamente, il libro di Pira riporta nella pagina della dedica la seguente, bellissima frase di San Giovanni Bosco: “dalla buona o cattiva educazione della gioventù dipende un buon o un triste avvenire della società”.

[1] Figli delle app, Francesco Pira, Franco Angeli, 2020.

[2] Bandura, Albert & Barbaranelli, Claudio & Caprara, Gian & Pastorelli, Concetta. (1996). Mechanisms of Moral Disengagement in the Exercise of Moral Agency. Journal of Personality and Social Psychology. 71. 364-374. 10.1037/0022-3514.71.2.364.

[3] Questi concetti e l’idea di cultura partecipativa di Henry Jenkins, professore di giornalismo, comunicazione ed arti cinematiche alla University of Southern California, sono discussi alle pagine 83 e 84  del libro di Pira, dove si cita anche un’interessante intervista allo studioso americano: http://henryjenkins.org/blog/2020/10/23/covid-19-participatory-culture-and-the-challenges-of-misinformation-and-disinformation.

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Cosa serve ai nostri ragazzi?

Un invito alla lettura. Il nuovo libro di Matteo Lancini presenta una serie di considerazioni e riflessioni utilissime per comprendere il funzionamento psichico, i pensieri, i problemi degli adolescenti del nostro tempo.

Cosa serve ai nostri ragazzi?

Giovanni Marangio

Invito alla lettura

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“Cosa serve ai nostri ragazzi. I nuovi adolescenti spiegati ai genitori, agli insegnanti, agli adulti”, Utet, 2020: in un testo agile, scritto in modo semplice e diretto,  Matteo Lancini presenta una serie di considerazioni e riflessioni che ci aiutano a comprendere il funzionamento psichico, i pensieri, i problemi degli adolescenti del nostro tempo. Mi auguro che le note che seguono, che riassumono solo parzialmente alcuni contenuti del libro, siano utili a metterne in evidenza la ricchezza di spunti e i motivi d’interesse. Una prima considerazione è che l’ambiente e la società in cui crescono le nuove generazioni sono profondamente diversi da quelli dei loro genitori. Si tratta di un cambiamento che investe i modelli educativi, i ruoli genitoriali, la percezione degli altri in una società il cui orizzonte simbolico e lo stesso modo di vita hanno attraversato un rapido e pervasivo processo di trasformazione. Nel passato era comune vedere bambini sotto i 10 anni che si spostavano da soli per la città per recarsi a scuola o per trovare un amico. Oggi questo, nell’ambito della nostra società iperprotettiva, non è più immaginabile, le piazze e gli spazzi virtuali sembrano essersi sostituiti ai cortili, alle strade. Eppure, camminare per la città da soli o in compagnia di coetanei, scoprire nuovi spazi umani non controllati o protetti dagli adulti costituiva uno degli aspetti tipici del percorso di crescita dell’adolescenza.

Durante l’infanzia i nostri ragazzi crescono in un ambiente ricco di stimoli, in cui la solitudine è bandita ed il tempo è spesso gestito da una sorta di “madre virtuale” che dal luogo di lavoro e attraverso lo smartphone organizza le attività di nonni, tate, baby-sitter adibiti alla cura dei figli ed incaricati di prelevarli alla scuola materna, condurli in piscina, alla lezione di inglese, ecc. La funzione del padre sembra essersi “rotta”, aver perduto d’importanza e centralità.  La relazione con i figli non è più improntata, come nel passato, ad un modello normativo, in cui la relazione affettiva poteva interrompersi con il bambino disobbediente o troppo espressivo. A questo approccio etico normativo se ne è sostituito uno affettivo e relazionale.

Nel periodo infantile è forte l’insistenza sull’amicizia (a cui si contrappone peraltro una certa diffidenza nei confronti delle amicizie nel periodo dell’adolescenza). Già dalla scuola materna, si abituano i bambini a dare importanza alla popolarità e al successo, che diventano valori fondamentali. In questo contesto, come testimonia il desiderio di condividere tutto sui social da parte dei genitori, la distinzione tra pubblico e privato è divenuta sempre più flebile e la stessa distinzione tra vita reale e virtuale tende a scomparire.

Un altro elemento importante da considerare in questo contesto è la tendenza dei genitori ad eliminare ostacoli e frustrazioni durante il periodo di crescita dei loro figli. È possibile che ciò in qualche modo rifletta un senso di inadeguatezza o di incapacità ad affrontare questo dolore da parte dei genitori stessi. Quello che ne consegue è una tendenza ad attribuire a terzi le difficoltà dei figli: all’inadeguatezza della scuola, dell’insegnante, dell’allenatore di calcio, degli altri compagni di scuola, eccetera. Una tendenza questa che influenza anche i figli che tenderanno a nascondere ai genitori le proprie difficoltà per paura di deluderli. Si assiste ad “una rimozione collettiva del dolore a cui partecipano attivamente madri e padri che innescano, inconsapevolmente, meccanismi difensivi che promuovono una sorta di sparizione del bambino reale a favore di un bambino ideale.”[1] 

Il rischio posto da tutto ciò è che madri virtuali, società del narcisismo e internet creino ed alimentino durante l’infanzia aspettative ideali troppo elevate su sé stessi, aspettative che andranno spesso deluse durante la fase della seconda nascita, quella dell’adolescenza, in cui si compiono processi di maturazione del corpo, di separazione dai genitori e di soggettivazione. Ciò costringe i genitori a fare i conti con i figli reali, con soggetti altri da loro, diversi dalle loro aspettative ideali, aspettative che sono anche state interiorizzate e fatte proprie dai figli stessi durante l’infanzia.

Durante l’adolescenza, d’altra parte, si incominciano ad affrontare difficoltà nuove, non sperimentate nel mondo protettivo dell’infanzia. A questo proposito, è importante ciò che avviene nel mondo della scuola, istituzione che svolge un ruolo fondamentale nella vita e nel processo di maturazione dei ragazzi. Rispetto a quella che la precede, la scuola secondaria è più competitiva, difficile, richiede più sottomissione e fatica, impone test e misura il rendimento. Ne nascono per molti difficoltà ed insuccessi, ardui e dolorosi da affrontare sia per gli studenti che per i loro genitori.  

Di fronte a questa situazione, nei genitori, confusi e traumatizzati, prevale spesso la tendenza a ritornare ai modelli educativi del passato, normativi e limitanti, con cui sono cresciuti. In luogo di strategie efficaci per aiutare i figli ad affrontare il disagio ed il dolore, si ricorre alle proibizioni, si impongono misure sanzionatorie.  Sintomatico è quanto accade nei confronti dello smartphone che, da strumento di geolocalizzazione o di celebrazione della bellezza dei propri bambini, viene demonizzato e considerato la causa delle distrazioni dei figli e dei loro insuccessi scolastici.

I telefonini, internet diventano una sorta di capro espiatorio, la causa, il colpevole che i genitori preferiscono additare per liberarsi dei propri sensi di colpa. Non si riflette, come si dovrebbe, sull’influsso che la nostra cultura individualista e del narcisismo esercita sulla psicologia degli adolescenti, non si prende in considerazione il fatto che siamo i primi, come genitori, a adottare i comportamenti che contestiamo ai figli, tra uso continuo del telefonino stesso, selfie, presenzialismo sui social media e via dicendo.

Gli adolescenti di oggi sperimentano una discrepanza tra le aspettative ideali in cui sono stati allevati durante la loro infanzia e la realtà che scoprono da adolescenti. Le aspettative narcisistiche che i genitori e la cultura odierna hanno instillato in loro fanno sì che non si sentano mai abbastanza popolari, belli, all’altezza delle aspettative proprie e degli altri. Inutile dire che ciò genera grande sofferenza.

Ma utilizzare oggi i modelli educativi di ieri, con i loro richiami all’etica dell’obbedienza e del dovere, è controproducente e rivela la fragilità degli adulti che per essere autorevoli si trasformano improvvisamente in genitori autoritari. All’opposto di ciò che si vorrebbe, tali comportamenti comportano una perdita di autorevolezza e di credibilità nei confronti di giovani che rimangono disorientati di fronte a questo inaspettato cambio di atteggiamento. “Internet e dipendenza dallo sguardo di ritorno degli altri, esattamente quello che gli abbiamo proposto per i primi dodici anni di vita, che improvvisamente vengono guardati con sospetto. Tutto quello che ritenevamo bello e importante per i nostri bambini diventa brutto e cattivo con l’adolescenza, tutto sbagliato e, comunque, del tutto esagerato”. La conseguenza, enunciata all’autore in modo diretto ed esplicito, è che “su queste basi abbiamo costituito la più significativa emergenza educativa degli ultimi tempi: una precocizzazione e adultizzazione del bambino a cui facciamo seguire una infantilizzazione dell’adolescente.” [2]  

Gli adolescenti di oggi non hanno alcuna tendenza alla trasgressione, non vogliono combattere contro un padre onnipotente e norme super-egoiche. Il loro problema centrale non è il bisogno di trasgredire, ma la delusione di fronte ad aspettative così elevate da rivelarsi irraggiungibili.  Lungi dal contrapporsi agli adulti, in loro ricercano ascolto, una presenza autorevole che li aiuti a superare questo dolore e questa sensazione di inadeguatezza. La relazione tra adolescenti e adulti riveste un’importanza fondamentale. Affinché questa relazione sia efficace e autenticamente educativa, è necessaria una comprensione della complessità e della specificità delle situazioni che coinvolgono l’adolescente, rifuggendo dalle soluzioni ingannevoli e semplificatorie che si esprimono, per esempio, in formule stereotipate del tipo “meno internet e più studio“. 

È importante non generalizzare, non scambiare i normali disagi che comunque caratterizzano una fase di crescita e di adattamento con qualcosa di più grave. Ma è bene sapere che, in questo contesto di delusione e sofferenza, possono sorgere, nei casi più gravi, tendenze suicidali oppure comportamenti estremi, influenzati dalla rete, come il selfie estremo, o anche il sexting o il cyberbullismo. Si tratta di comportamenti posti in atto per lenire il dolore causato dalla consapevolezza della propria fragilità o della mancanza di popolarità e successo. È un modo di rendere tollerabili i fallimenti inevitabili della crescita, la sensazione pervasiva e terribile di non avere valore. A tutto ciò internet sembra offrire una valvola di sfogo: “Nell’adolescente in preda all’ impopolarità, avvolto dalla sensazione di essere fallimentare, senza futuro, prende forma dinanzi a sé un ostacolo insormontabile, davanti al quale, in base al proprio funzionamento psichico e affettivo, si decide di scomparire o di tentare di superarlo mettendo in scena un’azione grandiosa. Da una parte il tentativo di suicidio o il ritiro sociale, dall’altra parte la sovraesposizione virtuale. In qualunque caso sono forme sempre più diffuse del disagio adolescenziale, che si esprimono attraverso l’attacco a sé e al proprio corpo o attraverso fantasie di recupero maturativo agite in rete. “[3]

In questo ambito rientrano i disordini alimentari, prevalentemente femminili, il ritiro sociale, prevalentemente maschile (si pensi al fenomeno degli hikikomori giapponesi, ormai molto diffusi anche in Europa e in Italia), il self cutting, il consumo di cannabinoidi, gli attacchi di ansia e di panico.  

Si tratta di comportamenti di ragazzi che soffrono per non essere all’altezza delle proprie aspettative, che non attaccano il mondo adulto e la società. Da questo punto di vista, il consumo dei cannabinoidi non ha più una valenza simbolica e trasgressiva o di ribellione.  Queste sostanze non sono utilizzate “contro”, ma piuttosto in funzione sedativa e a sostegno di sé stessi. Di questo quadro, avverte Lancini, è necessario tener conto quando si svolgono interventi di informazione e prevenzione presso le scuole.

Il self-cutting non rappresenta più, come si poteva ritenere in passato, un attacco al proprio corpo visto come oggetto erotico e “peccaminoso”, tanto più in una società come la nostra in cui il corpo e le sue immagini non sono più oggetto di proibizione e fobia. È piuttosto una richiesta indiretta di intervento ed un gesto “anestetico”: si preferisce provare dolore fisico per sfuggire ad una sofferenza psichica che appare insopportabile.

In questo quadro, nuovo e al tempo stesso complesso, la scuola può e deve svolgere un ruolo fondamentale di auto e di sostegno nella crescita degli adolescenti. È un punto che l’autore sottolinea con chiarezza: “…La scuola dovrebbe affermarsi come luogo elettivo dell’elaborazione e messa in atto di modelli culturali e operativi che contrastino il predominio odierno della proposta massmediatica e di internet e lo strapotere imperante di individualismo e competizione. “ [4]

Per farlo, la scuola dovrebbe adattarsi maggiormente alle esigenze di ragazzi che cercano negli insegnanti la capacità di guidarli attraverso uno sguardo di ritorno incoraggiante ed una relazione positiva. Su queste premesse, Lancini ritiene che bocciature e voti non siano uno strumento adeguato ad affrontare le difficoltà che i ragazzi incontrano nel loro percorso scolastico. Ciò che oggi servirebbe è un insegnamento più personalizzato e tollerante nei confronti degli errori, orientato a trasformare i possibili, spesso inevitabili fallimenti in opportunità di crescita senza necessariamente imporre esperienze di mortificazione. Non si tratta di offrire il “sei politico”. Anche senza i voti, precisa l’autore, la scuola dovrebbe essere in grado di esprimere valutazioni severe e di testimoniare con autenticità le differenze di merito fra gli allievi. Il problema non sono le promozioni facili, ma l’alto tasso di abbandono scolastico.

Auspicando la costituzione di una nuova alleanza tra scuola e famiglia sin dai primi anni di istruzione, “Cosa serve ai nostri ragazzi” indica anche ai genitori un elemento cardine per lo sviluppo di una nuova cultura educativa. Si tratta della capacità di amare ed apprezzare di più i figli degli altri in una sorta di “genitorialità diffusa”, creando un ambiente in cui non si mira ad eliminare qualsiasi difficoltà per i propri figli, ma a farsi carico delle difficoltà degli altri e della loro diversità, considerando la diversità come un patrimonio importante da un punto di vista educativo. Del resto, il benessere degli altri bambini va a beneficio di tutti, anche dei nostri figli di cui, peraltro, sono spesso gli amici e i compagni di studio e di giochi.     

I “genitori autorevoli”, hanno questa capacità. Più in generale, sono in grado di accettare la presenza del dolore nei figli, dando loro la possibilità di esprimersi, di parlarne. Superando la tendenza a concentrarsi su ciò che non va, su ciò che non corrisponde alle loro aspettative, scoprono o riscoprono nei propri figli ciò che di loro apprezzano, sapendoglielo comunicare.  I nostri figli, ci ricorda Lancini, vanno amati per quello che sono, anche se questo talvolta è molto difficile.

[1] “Cosa serve ai nostri ragazzi”, pagina 22. L’autore di questo testo, il professor Matteo Lancini, è psicologo, psicoterapeuta, presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano e docente presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca e presso la Scuola di formazione in Psicoterapia dell’adolescente e del giovane adulto del Minotauro.

[2] ivi, pagina 28. Al tema dei genitori autorevoli, sopra accennato, è dedicato un altro libro molto interessante dello stesso autore: “Abbiamo bisogno di genitori autorevoli”, Matteo Lancini, Mondadori, 2017

[3] ivi, pagina 31

[4] ivi, pagina 43

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Due fiocchi di neve uguali

Il desiderio di raccontare una storia, a cui il mondo sembra non prestare ancora la dovuta attenzione, si è realizzato nel libro di Laura Calosso: “Due fiocchi di neve uguali”, edito da SEM, gennaio 2019. I due protagonisti sono quelli che, comunemente, potrebbero essere definiti dei bravi ragazzi: Margherita e Carlo. Come tutti gli adolescenti hanno un loro mondo che spesso non trova riscontro in quello reale.

Due fiocchi di neve uguali

Donatella Costa

Recensione del romanzo di Laura Calosso.

Il desiderio di raccontare una storia, a cui il mondo sembra non prestare ancora la dovuta attenzione, si è realizzato nel libro di Laura Calosso: Due fiocchi di neve uguali, edito da SEM, gennaio 2019. I due protagonisti sono quelli che, comunemente, potrebbero essere definiti dei bravi ragazzi: Margherita e Carlo. Come tutti gli adolescenti hanno un loro mondo che spesso non trova riscontro in quello reale.

Margherita si appresta a sostenere l’esame di ammissione alla facoltà di medicina, dopo aver brillantemente superato l’esame di maturità. Le non rosee condizioni economiche della famiglia potrebbero tuttavia essere di ostacolo alla realizzazione del suo sogno. Riesce a concedersi una piccola pausa di vacanza andando a trovare una amica al mare. Il suo viaggio avrà un epilogo inatteso.
Carlo e Margherita si conoscono sin da piccoli, da tempo Carlo non frequenta la scuola. E’ un hikikomori. Ha scelto di relazionarsi col mondo a modo suo, senza contatto diretto, il suo interlocutore è lo schermo del computer e il mondo che vi è oltre. Laura Calosso tratteggia i personaggi della sua storia dando al lettore un senso di partecipazione emotiva al vissuto dei due giovani. Il viaggio di Margherita verso il mare ne è esempio.  

Le vite di Carlo e Margherita apparentemente scorrono in parallelo. Ciò che ancora li accomuna è il desiderio di essere ascoltati ed accolti per ciò che sono: degli adolescenti, individui in cammino. I due protagonisti sono circondati da adulti autoriferiti incapaci di dedicare il tempo necessario a chi questo mondo lo deve ancora conoscere.
L’autrice porta l’attenzione del lettore su quelle che possono essere le cause del disagio dei protagonisti. Una società dedita al raggiungimento del successo, di una condizione economica agiata, in cui chi non ha le possibilità è tagliato fuori; o ancora chi si sente fragile o semplicemente insicuro non trova il suo spazio perché prevaricato o ignorato.
La scelta di Carlo è forte, chiudersi in casa perché ciò che c’è fuori non gli permette di esprimersi, di essere quello che è. Tutti i personaggi del romanzo, oltre i protagonisti, mostrano fragilità, ma soprattutto combattono la loro solitudine interiore che li porta ad esprimersi in maniere differenti, chi si comporta in modo scellerato, chi passa inosservato e chi infine decide di sparire. 

Il fenomeno degli Hikikomori, diffusosi in Giappone, oggi è una realtà anche in occidente. E’ più che mai necessario cambiare rotta educativa. I nostri ragazzi chiedono attenzioni, sostegno ed impegno. È necessario che L’interesse per l’immagine sociale lasci il posto alla formazione della persona. La nostra società è esigente dal punto di vista della richiesta d prestazioni, ma poco attenta ai bisogni individuali. Gli hikikomori sono sfiduciati, non credono più nei rapporti sociali
La strada è quella di recuperare e dare valore al singolo individuo, riconoscere il suo dolore, non sminuirlo; né banalizzarlo. L’azione richiesta deve essere sinergica affinché si individui quale o quali siano le cause dell’isolamento.
Siamo oggi tutti chiamati a rivedere i nostri ruoli educativi, familiari e sociali affinché i giovani si sentano accolti e compresi. Il giudizio dell’adulto, inteso come premio o castigo, deve necessariamente lasciare il posto ad un atteggiamento equilibrato dove non mancano annotazioni e rimproveri, ma in cui la sicurezza di un interlocutore consapevole e motivato sia un riferimento certo.

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