“Figli delle app”, nativi digitali.

Figli delle app, il bel libro di Francesco Pira, ci aiuta a comprendere la vita social ed al tempo stesso la solitudine dei cosiddetti nativi digitali, facendo luce sulle trasformazioni che la rivoluzione tecnologica sta apportando nei modelli comunicativi e comportamentali dell’odierna generazione di preadolescenti e adolescenti.

“Figli delle app”, nativi digitali.

Giovanni Marangio

Invito alla lettura

Photo by Daria Nepriakhina on Unsplash

Figli delle app[1], il bel libro pubblicato recentemente da Francesco Pira, sociologo e professore all’università di Catania, ci aiuta a comprendere la vita social ed al tempo stesso la solitudine dei cosiddetti nativi digitali, facendo luce sulle trasformazioni che la rivoluzione tecnologica sta apportando nei modelli comunicativi e comportamentali dell’odierna generazione di preadolescenti e adolescenti. Il perché del titolo lo spiega l’autore stesso nelle prime pagine del volume: “Figli delle app è il provocatorio titolo che ho scelto, da immigrato digitale e adolescente, quando Alan Sorrenti cantava: Noi siamo figli delle stelle/ Non ci fermeremo mai per niente al mondo/ Per sempre figli delle stelle/ Senza storia senza età, eroi di un sogno. Non sono sicuro che essere figli delle app sia “essere eroi di un sogno”, purtroppo concordo con il pensiero del grande sociologo Zygmunt Bauman che il consumismo tecnologico rischia di trasformarci in individui senza storia e identità” (pag. 19).

Tracciando l’evoluzione degli strumenti del comunicare a partire dall’avvento della televisione, Francesco Pira descrive il processo di mediatizzazione che ha caratterizzato la nostra società e come questo influenzi la nostra vita sociale. Rifacendosi anche a McLuhan, l’autore evidenzia la preminenza attribuita nella nostra cultura all’immagine come fonte di sapere, con una conseguente atrofizzazione delle capacità di astrazione e comprensione a vantaggio di una conoscenza di tipo più reattivo ed emozionale. È un processo di trasformazione dell’homo sapiens in homo videns, che si rafforza nel tempo grazie ai progressi della tecnologia: “Gran parte della storia contemporanea ruota intorno alla video-rappresentazione; quella “scatola” presente nelle case di ogni abitante della terra ha guidato la nostra conoscenza del mondo e degli altri, si è trasformata, si è moltiplicata, è diventata multipiattaforma, si è ricombinata ed è entrata in tutti gli altri strumenti tecnologici. Sì, perché il video, la visione, l’immagine è diventata il centro delle nostre esistenze” (pag. 87).

Si tratta di cambiamenti che investono non solo le nostre modalità di conoscenza del mondo, ma anche e profondamente la nostra vita sociale. Grazie agli sviluppi della tecnologia degli ultimi decenni, per molti il gioco si trasforma in videogioco, la comparsa dei telefonini facilita la sostituzione della comunicazione in presenza con quella a distanza e favorisce le prime tendenze all’isolamento sociale. La trasformazione dei telefoni cellulari in smart phone, la diffusione di app come Facebook, generano profondi cambiamenti nel modo in cui si svolge la vita sociale: tutti sono connessi, i “social media” si diffondono e ci offrono degli universi sociali, fatti di connessioni più che di relazioni, in cui rappresentare noi stessi secondo modalità strutturate, una sorta di vetrina in cui proiettare la nostra persona sociale. Le app, a portata di mano e in un’ottica “soluzionista”, offrono strumenti per risolvere un insieme apparentemente infinito di problemi e situazioni (di lavoro, di studio, di carattere sentimentale, ecc.). Tra queste, ci fa notare l’autore, WhatsApp, con la sua messaggistica istantanea, rappresenta una rivoluzione nel modo di comunicare, offrendo la possibilità di usare indifferentemente messaggi testuali, verbali, immagini e video. Un aspetto di questa rivoluzione è l’importanza che ha assunto la comunicazione “pittografica”, fatta di faccette che sorridono e di un intero repertorio di icone, in una sorta di riavvicinamento collettivo ai tempi in cui l’umanità non aveva ancora sviluppato i sistemi di scrittura. Il rischio è quello di una inconsapevole semplificazione dei processi comunicativi effettuata attraverso l’uso di una “pittografia guidata”, cioè di pittogrammi che non creiamo liberamente per esprimere i nostri sentimenti, come facevano i nostri antenati, ma che riceviamo già confezionati dagli autori che operano per le aziende che sviluppano e gestiscono le diverse app.

È in questo ambiente profondamente digitalizzato che i giovani crescono ed è quindi importante comprendere come tale ambiente influenzi lo sviluppo delle loro personalità e la costruzione della loro identità.

In questa prospettiva alcuni fenomeni destano preoccupazione. “La contrapposizione tra semplicità d’uso delle tecnologie e complessità del mondo sta generando una società individualista, poco incline al confronto, dove, per riprendere la tesi di Bauman, gli individui credono di essere connessi con il mondo ma vivono in una confortevole solitudine” (pag. 65). Il fenomeno del confirmation bias, ovvero la conferma ed il rafforzamento delle proprie credenze ed opinioni determinato dal modo in cui app e motori di ricerca filtrano le informazioni che riceviamo attraverso internet, contribuisce ad approfondire l’isolamento culturale, se non addirittura sociale, degli individui. I ragazzi, esposti a questo tipo di influenza sin da molto piccoli, finiscono spesso con il considerare il mondo mediato dalle app più reale della realtà stessa. I gruppi virtuali si aggregano in genere sulla base di ciò che piace ai “like-minded people”, selezionati attraverso la sequenza like-share-comment. Ciò aumenta l’esposizione selettiva agli stessi contenuti e quindi la polarizzazione dei gruppi e la chiusura verso opinioni ed orizzonti differenti. Si viene insomma a determinare una struttura relazionale del consenso ed una alterazione dei meccanismi che governano ciò che retiniamo plausibile o implausibile.

D’altra parte, un fenomeno importante indotto dalla centralità dell’immagine e dal diffondersi dei nuovi codici comunicativi nella nostra cultura è la prevalenza dell’immediatezza, dell’apprendimento e dell’informazione basati su di una rappresentazione mediatica emotiva e semplificata della realtà. Ciò induce a velocizzare molti processi decisionali: si tende ad agire o a giudicare prima di conoscere, sulla base della percezione piuttosto che della comprensione razionale.

È un fenomeno che riguarda più o meno tutti, ma i nativi digitali vi sono più esposti. Un ruolo importante è giocato dagli influencer non solo nel plasmare le opinioni di molti di loro, ma anche nel determinarne i comportamenti di acquisto di beni e servizi, in ciò fungendo da strumenti di strategie di marketing industriale nell’ambito della nostra società consumistica.

Ritornando ai processi di formazione e di crescita dei nativi digitali, i social media da loro frequentati (per esempio Instagram) creano un universo sociale in cui l’identità rappresentata tende ad essere separata da quella privata, in un processo di vetrinizzazione del proprio sé volto ad ottenere successo e commenti positivi, spesso in imitazione di modelli competitivi ed iper-performanti. L’identità rappresentata è scientemente studiata per proiettare un’immagine attraente, “popolare”, in un’ottica di reattività emotiva ed istantanea che necessita di essere continuamente alimentata con nuovi post per resistere nel tempo, tanto più se si considera che le “stories” pubblicate sul social di solito rimangono visibili per un tempo limitato, in un contesto di progettata provvisorietà.

La pressione sociale dei coetanei, il bisogno di farsi notare e di piacere da una parte, dall’altra il predominio dell’io, una certa anarchia comunicativa, la sensazione che tutto sia permesso, conducono sovente a comportamenti dannosi per sé (è quanto è successo ad alcuni ragazzi che hanno partecipato a pericolosi giochi di “challenge” promossi in rete) o per gli altri.  In quest’ultimo caso si parla di comportamenti manipolatori o di nuove devianze come il cyberbullismo, il body shaming, lo slut shaming (“svergognare la sgualdrina”), il revenge porn, che tendono ad essere accettati attraverso meccanismi di moral disengagement (“disimpegno morale”). È interessante notare che a questo proposito Francesco Pira fa riferimento esplicito ai concetti introdotti da Albert Bandura[2] ed altri nel 1996. Si tratta, in estrema sintesi, di meccanismi di pensiero attraverso cui coloro che perpetrano azioni riprovevoli cercano di sminuirne la responsabilità morale. Esempi ne sono le definizioni eufemistiche di quanto è stato commesso, o i tentativi di diffondere la responsabilità sul maggior numero possibile di persone (se qualcosa è fatto da tutti nessuno è responsabile, oppure se qualcosa è stato commesso in gruppo, sono gli altri i maggiormente responsabili). Un altro procedimento di autogiustificazione consiste nell’attribuzione della responsabilità alla vittima stessa (per esempio perché “ha provocato”). Si noti che questi meccanismi sono gli stessi che tradizionalmente sono stati adottati per mascherare le responsabilità di chi ha commesso stupri o altri crimini anche su vasta scala.

Di fronte ai problemi posti da questa situazione, l’autore di Figli delle app non assume una posizione di chiusura verso le nuove tecnologie. Il suo libro, del resto, non è dedicato solo alle vittime delle nuove devianze, ma anche “a coloro che usano le nuove tecnologie per trasmettere al mondo messaggi positivi e condividere conoscenza”. In questa prospettiva è necessario creare nuovi modelli di governance del mondo digitale finalizzati alla riduzione delle disuguaglianze nell’accesso alle risorse digitali stesse, incrementare la “digital literacy”, l’alfabetizzazione ma anche la competenza critica in ambito digitale, per garantire soprattutto ai giovani una migliore trasparenza dei flussi di informazioni, promuovendo anche attraverso le istituzioni educative lo sviluppo di una cultura partecipativa, in grado di attivare la capacità di confrontarsi, di mettere in comune le conoscenze, capacità indispensabile per orientarsi tra tutto ciò che circola in rete, ivi comprese le fake news. È importante inoltre consentire ai ragazzi di sviluppare valori e norme etiche per muoversi con responsabilità nel mondo sociale tecnologizzato[3].

Il volume di Pira è anche l’occasione colta dall’autore per presentare i risultati di un’inchiesta svolta nel mese di aprile 2020 su di un campione di ragazzi e ragazze attraverso la compilazione online di un questionario.  Si tratta di risultati molti interessanti che gettano luce sul rapporto degli adolescenti con la tecnologia digitale, la didattica a distanza, i social durante il periodo della pandemia di COVID-19.

Tra i molti dati esposti, mi limiterò a citarne un paio.

Durante il periodo di didattica a distanza e di lock down la maggioranza dei ragazzi che hanno risposto al questionario dichiara di aver provato sensazioni di forte isolamento, paura e scoraggiamento, un segnale questo che la connessione (che in questo periodo, come rileva la stessa inchiesta, è giunta ad occupare tempi ancora più lunghi durante la giornata) non sostituisce i benefici della relazione vissuta in libertà, termine che i giovani utilizzano in relazione alla possibilità di uscire di casa ed incontrare gli amici. Il disagio risulta inoltre aumentato dalla promiscuità forzata che lo smart working ha determinato presso molte famiglie, specialmente tra coloro le cui abitazioni non dispongono di spazi sufficientemente ampi.

Se è ormai pacifico che il 99% dei ragazzi abbia un profilo social, è interessante che dalle risposte al questionario emerge che una quota non trascurabile tra loro utilizza un profilo falso.  Pur tenendo in considerazione il fatto che per gli adolescenti l’attività in rete fa parte di un processo di apprendimento e di partecipazione sperimentale alla vita pubblica, è questo un dato su cui riflettere. “Alla luce di quanto sopra esposto, si può affermare che gli adolescenti sono un “prodotto” di quest’era della disinformazione: vittime del sistema delle fake news, ne diventano protagonisti ritenendo “normale” utilizzare il falso per i propri scopi” (pag. 82). Ritorna qui il tema della costruzione di una cultura partecipativa più trasparente e più permeabile ai valori etici che faciliterebbe un’utilizzazione più consapevole e critica delle risorse digitali.

Come accennato sopra, si tratta di un percorso in cui le diverse agenzie educative, in particolare la famiglia e la scuola, possono svolgere un ruolo determinante. Significativamente, il libro di Pira riporta nella pagina della dedica la seguente, bellissima frase di San Giovanni Bosco: “dalla buona o cattiva educazione della gioventù dipende un buon o un triste avvenire della società”.

[1] Figli delle app, Francesco Pira, Franco Angeli, 2020.

[2] Bandura, Albert & Barbaranelli, Claudio & Caprara, Gian & Pastorelli, Concetta. (1996). Mechanisms of Moral Disengagement in the Exercise of Moral Agency. Journal of Personality and Social Psychology. 71. 364-374. 10.1037/0022-3514.71.2.364.

[3] Questi concetti e l’idea di cultura partecipativa di Henry Jenkins, professore di giornalismo, comunicazione ed arti cinematiche alla University of Southern California, sono discussi alle pagine 83 e 84  del libro di Pira, dove si cita anche un’interessante intervista allo studioso americano: http://henryjenkins.org/blog/2020/10/23/covid-19-participatory-culture-and-the-challenges-of-misinformation-and-disinformation.

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Adolescenti e genitori al tempo della quarantena

Uno psicoterapeuta, che lavora con la nostra associazione, racconta il suo dialogo “da remoto” con gli adolescenti durante l’emergenza Covid 19. È una testimonianza tratta dalle esperienze dei ragazzi nel periodo della quarantena e ci parla dei loro rapporti con i genitori e gli altri membri della famiglia all’interno di una convivenza forzata e spesso difficile, del loro modo di vivere la lontananza dai coetanei, la didattica a distanza, delle paure legate al ritorno ad una situazione di maggiore normalità.

Adolescenti e genitori al tempo della quarantena

Mauro Pasqua

Gli adolescenti oggi e l'ascolto del loro disagio.

Racconti da remoto

Pur da remoto, ho continuato a sentire gli adolescenti che incontravo in studio tutte le settimane. Il mio lavoro è proseguito anche durante la quarantena, per tenere teso il filo del dialogo costruito con loro. Questo mi ha permesso di monitorare nel susseguirsi delle settimane come vivessero il particolare momento che tutti stiamo attraversando. Ho parlato con loro al telefono o in videochiamata e mi hanno spiegato che non avevano paura, che chiusi in casa si sentivano al sicuro, ma che osservavano le condizioni di isolamento nel rispetto degli altri: “Il Covid-19 fa meno paura a chi ha la mia età, non temo per me ma per i miei famigliari, soprattutto per i miei nonni. Poi ho capito che se rimaniamo a casa evitiamo che il virus si diffonda”. Così mi ha detto Federico, 15 anni.

I loro racconti mi hanno permesso di immaginare la loro vita in casa nel susseguirsi dei giorni. Li vedo passare da una stanza all’altra, dallo smartphone al tablet; svegliarsi con fatica per seguire le lezioni on line, afflitti dalla noia. In altri giorni le cose vanno meglio, permane l’intolleranza per la presenza degli altri familiari, sentiti interferenti nei loro contatti più personali con gli amici o troppo insistenti su alcune regole. La situazione a volte degenera con i fratelli, magari con quelli con qualche anno in meno, che non riescono comprendere che certi comportamenti sono provocazioni gratuite che generano una reazione piena di rabbia. Così si mettono alla disperata ricerca di privacy nella propria stanza o nel bagno, nel tentativo di evadere da una situazione difficile, dettata dalla clausura forzata.
Dai loro racconti si snocciolano momenti di vita diversi, con il loro correlato di emozioni: noia, rabbia, tristezza, rassegnazione, ma anche inattesa gioia per i colloqui virtuali con amici, che in questo frangente sono disponibili ad approfondire la relazione anche a distanza. Anche in famiglia è accaduto qualcosa di strano. In una quotidianità a volte troppo stretta, accanto a momenti davvero difficili, si aprono spazi di particolare significato, si scopre che i genitori sanno stare vicini, o almeno ci provano come non hanno mai fatto prima.

La scuola continua ma con la DAD

La scuola è sempre stata un elemento determinante di “organizzazione mentale” dei ragazzi. Il tempo dell’adolescente è strutturato dagli orari della scuola: le settimane si scandiscono in giornate con orari stabili, che divengono incontri, volti e luoghi familiari, impegni e obiettivi quotidiani.
La scuola è però soprattutto, per i ragazzi, partecipazione e sperimentazione sociale tra pari.
Non avrei mai pensato che Beatrice, 16 anni, che al mattino si trascinava a fino al cancello della scuola, sempre in ritardo e con nessuna voglia di entrare, mi dicesse: “Quanto mi manca la scuola”. Gli adolescenti lo sanno bene quanto hanno bisogno di passare del tempo con amici e compagni. La vita con i coetanei è il luogo dove si sperimentano, si mettono alla prova, collaudano sé stessi per meglio definirsi e per separarsi gradualmente dai genitori, sulla via del diventare adulti.
La chiusura delle scuole ha determinato uno stravolgimento nei ritmi di vita e ha generato la limitazione più dura degli spazi di aggregazione sociale che i ragazzi avevano: l’impossibilità di incontrare i coetanei.
La scuola è cambiata e loro si sono adattati. La didattica a distanza costituisce per loro la possibilità di guardare avanti, anche se di poco, di vedere che non tutto è bloccato, che qualcosa in modo diverso prosegue, che c’è futuro per l’obiettivo scolastico di quest’anno.
Il cambiamento è radicale nella modalità di insegnare e di apprendere. I ragazzi sanno apprezzare le novità e dimostrano stima per i loro ‘prof’ e per i tentativi messi in campo di portare avanti l’anno scolastico, anche se a volte goffi o non sempre riusciti. Nemmeno i pluribocciati hanno inneggiato alla perdita di tempo e programmi. La didattica a distanza ha ridotto gli orari, ha allentato la tensione per le scadenze puntuali delle lezioni e delle verifiche.
La perdita vera per tutti però è quella della classe, con i suoi legami di amicizia intensa, di fratellanza adolescenziale, compresi i limiti delle invidie e delle dispettose piccole cattiverie di ogni umana comunità. Così sono scomparsi dalle loro vite i punti di riferimento temporali e relazionali. Dai racconti di alcuni di loro, mi è sembrato ci fosse una paura più dolorosa e profonda: la paura di perdere definitivamente gli amici o di vedere scomparire quel rapporto d’amore da pochissimo costruito, faticosamente tessuto di parole imbarazzate, intensi sguardi e vitale desiderio. Questo significa per i ragazzi “mi manca la scuola!”.

Sempre con lo smartphone: quando è troppo?

Dai racconti dei ragazzi mi è sembrato chiaramente che i genitori abbiano cercato una “mediazione”, ascoltando i loro bisogni e, allo stesso tempo, riuscendo ad organizzare la vita familiare, includendoli e responsabilizzandoli nel cercare insieme delle regole che non li facessero sentire ulteriormente disorientati. Il compito del genitore è quello di essere più saggio dei propri figli: questo vuol dire da un lato capire e sostenere i loro bisogni evolutivi e dall’altro proteggere e educare i ragazzi, creando un clima di confronto empatico ma anche stabilendo alcune norme chiare e coerenti. 

A fronte delle difficoltà, delle perdite che il cambiamento del lockdown ha comportato, va ricordato quanto siano importanti le competenze con le nuove tecnologie dei ‘nativi digitali’. È il momento di valorizzarle al meglio, ricordandoci che mantenere i contatti con gli altri è fonte di benessere. Così i ragazzi sono rimasti connessi per ore per raccontare sé stessi agli amici, per immaginare insieme, per capire se anche gli altri avevano paura, per allargare i margini della confidenza, per sentire gli altri per ritrovare sé stessi. Alcuni genitori però non riuscivano a darsi pace: “troppe ore con lo smartphone!”.
A questo riguardo va ricordato che il problema non è quello del “tempo” passato al cellulare ma dell’“uso” che ne vien fatto. Da temere non è il troppo tempo passato in internet, in chat, in video, guardando un film o una serie tv. Il pericolo vero è la perdita di sé, la chiusura in sé stessi, ammorbati dalla noia e senza relazioni. Il problema è da porsi quando l’uso delle tecnologie sostituisce le attività della vita quotidiana come mangiare, lavarsi, svolgere compiti scolastici. Quando si compromettono queste attività, l’uso delle chat, dei video, dei games e delle serie tv è disfunzionale e diviene sintomo, segnale di un malessere di cui iniziare a preoccuparsi. Intervenire non è facile, è cosa delicata aiutare i ragazzi a darsi dei tempi e si deve prestare attenzione a non andare in opposizione con imposizioni che rischiano di trasformare la vita domestica in guerriglia.

Tutti a casa ma ognuno con la propria privacy

In quarantena tanti aspetti della gestione della vita familiare devono necessariamente subire dei cambiamenti. I genitori non devono arrabbiarsi se i figli passano molto tempo nella loro stanza, si deve piuttosto far capire ai figli che si stanno facendo degli sforzi per rispettare i loro spazi: se così non è, aspetteranno le ore notturne per poter parlare in totale libertà con i loro amici.
È un problema serio per i ragazzi, anche nei colloqui che intrattengo settimanalmente con i ragazzi chiusi nelle loro case, quello di essere ascoltati da qualche famigliare: costituisce il limite per poter parlare di sé con libertà. È importante che i genitori garantiscano i momenti in cui i ragazzi fanno le videochiamate con gli amici e le fidanzate/i, così da dare loro la certezza che non vogliono sentire le loro conversazioni. Altrettanto essenziale è non fare troppe domande così da non dare l’impressione di essere curiosi delle loro conversazioni. Domande che gli impongono di dar risposte non vere. Se si crea uno spazio in cui c’è il rispetto della privacy, abbasseranno la guardia e saranno anche più propensi a rispettare gli spazi degli altri, perché tutti ne hanno bisogno.

Rimanere in ascolto delle loro emozioni

Per noi adulti è semplicemente solo una festa di compleanno quella che il lockdown impedisce, ma per un adolescente, che aspettava da mesi quel momento che non avverrà, non è un’occasione tra le altre che è andata persa. Quella festa per il diciottesimo del miglior amico, pensata a lungo in ogni dettaglio, è un momento che non potrà più essere recuperato.
Sono davvero tante le attività che caratterizzano la vita dei ragazzi che vengono attese a lungo e con trepidazione: le prime gite scolastiche in un’altra regione o all’estero, le attività extracurriculari, i pranzi con i compagni dopo scuola, le prime sere in cui si può uscire e poi restare a dormire dagli amici, i primi baci… Tutte situazioni desiderate che sono state cancellate in questi giorni.
Gli adolescenti sono fisiologicamente portati a vivere intensamente le emozioni e, in queste giornate, la noia, la frustrazione, la tristezza, la solitudine e l’ansia si sono fatte sentire più intensamente e non è stato facile arginarle. Ciò ha una enorme ripercussione sul loro umore e gli adulti devono dare loro il giusto spazio, offrire il loro ascolto e cercare di creare un clima di confronto e condivisione di quelle emozioni negative.
Nei loro racconti compare frequentemente l’espressione “non mi ascoltano… non mi capiscono…”. L’adulto deve porre attenzione a non sminuire o evitare le loro emozioni, i loro stati d’animo e le loro reazioni anche se appaiono eccessive. Si deve accogliere quello che stanno provando senza manifestare giudizi, senza dimostrare accordo o meno. Limitarsi semplicemente ad ascoltare riconoscendo verbalmente il loro dolore e imparare a rinforzare positivamente quanto sentito, dimostrandogli di aver ascoltato il racconto, di averlo capito, senza giudicarlo nei contenuti o nella sua espressione. Tutto ciò ha un impatto positivo sui rapporti perché riduce l’intensità dei conflitti e delle emozioni negative.
È importante che i ragazzi capiscano che possono parlare con i propri genitori. Gli adulti devono trovare le parole giuste per dire in modo chiaro la loro disponibilità a comprendere: “vedo che sei in difficoltà”, “se vuoi possiamo parlarne, aiutami a capire”, “è normale provare queste emozioni, vedremo insieme come possiamo fare”.
Non c’è poi da stupirsi o da rimanerci male se preferiscono altre persone con cui raccontarsi: è una regola del gioco dell’adolescenza: non possono sentirsi ancora i bambini di casa.

Quando si tornerà alla normalità.

Ascoltando i ragazzi in queste settimane mi sono trovato davanti a reazioni molto differenti: c’è chi ha continuato con tranquillità e responsabilità, chi si è spaventato, chi si è sentito imprigionato chi si è reso meno reattivo e chi si è passivamente rassegnato. Una ricerca, riportata da “Il Messaggero” del 28 aprile 2020, promossa da un’associazione di psicologi che ha raccolto le segnalazioni di ragazzi dai 12 ai 19 anni, rivela che 1 su 3 degli adolescenti presenta più di un sintomo depressivo a causa del lockdown e che di questi il 68% sono ragazze.
Diventare meno propositivi e rischiare un abbassamento del tono dell’umore, può essere un disinvestimento temporaneo, in un primo tempo anche funzionale all’adattamento alla nuova situazione. Ma se si protrae anche al dopo emergenza, sicuramente sarebbe meglio discuterlo con un esperto.
Ora dopo molte settimane di permanenza in casa, la vita si è reimpostata, si è rotta una routine e ora, al momento della graduale ripresa, è necessario affrontare nuovi cambiamenti che possono generare ansia e angoscia.
C’è il rischio che la situazione si cronicizzi, che si mantengano relazioni solo virtuali, e che si faccia fatica a riattivarsi e a riprendere in mano le redini della propria vita, soprattutto se, già prima del lockdown, non si aveva una certa stabilità in termini emotivi, relazionali o di tenuta negli impegni.
Gli adolescenti si sono molto responsabilizzati nella fase di massima emergenza, hanno svolto i loro compiti con serietà, sono stati fermi e in famiglia. Ma dentro di loro cosa è accaduto, oltre a quanto appare con evidenza?
L’adolescente ha tra i suoi compiti evolutivi quello di affrontare il tema della morte, intesa come limite, da temere per le perdite che genera o da sfidare per potersi sentire invincibili. Ora dopo quanto è accaduto alla nostra società, il pensiero del morire ha assunto tratti di realtà che renderà i ragazzi attenti quando la vita sociale riprenderà, ma allo stesso tempo il rischio è che si sentano limitati, finiti e, per alcuni, “così fragili da continuare ad avere paura”.

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